Un agente fluorescente è in grado di illuminare le cellule tumorali, delimitando così i confini della massa cancerosa. La scoperta, per ora testata solo sugli animali, potrebbe aiutare i medici ad asportare solo i tessuti effettivamente malati. Lo rileva una ricerca pubblicata su Cancer Research.
Uno degli ostacoli più grandi nella lotta al cancro è l'impossibilità di delimitare con certezza i confini della massa tumorale, rendendo difficili eventuali interventi chirurgici. Chi opera è spesso costretto ad asportare, quando necessario, anche i tessuti non direttamente colpiti dalla malattia. Per contrastare questo e altri problemi un gruppo di ricerca della Vanderbilt University (Tennessee) ha sviluppato dei composti in grado di “accendere la luce” nelle cellule tumorali. La scoperta, per ora testata solo su modelli murini, è stata pubblicata sul numero di maggio della rivista Cancer Research. Le sue potenziali applicazioni vanno dalla diagnosi precoce al monitoraggio del grado di malignità del tumore, fino appunto alla chirurgia.
L'illuminazione delle cellule tumorali avviene grazie a degli inibitori fluorescenti dell'enzima COX-2, una proteina che, se presente in grandi quantità, può essere il campanello d'allarme di un tumore. Questa caratteristica lo rende particolarmente adatto per le tecniche di imaging molecolare, il cui obiettivo è ricavare una “fotografia” di ciò che avviene a livello cellulare. “COX-2 compare già nelle prime fasi della crescita tumorale, per poi aumentare con la malignità del tumore”, ha spiegato Lawrence Marnett, direttore del Vanderbilt Institute of Chemical Biology. “Poiché l'enzima non è presente nei tessuti sani, la sua presenza può essere utilizzata come un vero e proprio faro nella caccia alle cellule maligne”.
Per sviluppare i composti fluorescenti i ricercatori sono partiti dal nocciolo della struttura chimica di due farmaci antinfiammatori, l'indometacina e il celecoxib, entrambi inibitori della proteina COX-2. Mantenendo la struttura base dei farmaci, hanno generato circa 200 molecole fluorescenti che sono state sottoposte al test della selettività per COX-2. Di queste due hanno dato esiti positivi, mostrando anche ottime capacità luminescenti negli esperimenti in vivo una volta iniettate negli animali.
Il gruppo di ricerca si è detto entusiasta per i risultati ottenuti: “Siamo molto soddisfatti dei nuovi agenti e ci stiamo muovendo per adattarli alle sperimentazioni cliniche sull'uomo”, ha detto Marnett. Il primo passo sarà condurre ulteriori test tossicologici e farmacologici, per poi definire da quali tipi di lesioni sia meglio iniziare per sfruttare al massimo le potenzialità diagnostiche di queste sostanze. Al momento le applicazioni più promettenti riguardano il trattamento di tumori della pelle o di siti accessibili per via endoscopica, come il colon e l'esofago.
Un esempio su tutti è quello dell'esofago di Barrett, una lesione pre-maligna che può svilupparsi prima in una displasia, poi in un tumore maligno con una percentuale di sopravvivenza del 10 per cento a un anno dalla diagnosi. “Per un paziente con l'esofago di Barrett riuscire a determinare il passaggio alla displasia è un momento critico”, spiegano gli autori. “Oggi si procede analizzando campioni provenienti da biopsie casuali, che potrebbero mancare l'area della displasia. Per questo sarebbe importante dare ai medici la possibilità di vedere attraverso l'endoscopio se e quali cellule si illuminano: in questo caso non ci sarebbero più dubbi sull'avvenuta transizione e su quali cellule prelevare per l'esame istologico”.
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